Le ordinanze del tribunale di Catania sui “migranti tunisini”: un’analisi critica.

Pietro Dubolino
Centro Studi Livatino
13 ottobre 2023


 

(Per gentile concessione del Centro Studi Livatino)


Molto si è discusso su chi le ha adottate; poco si è parlato del contenuto, che presenta molte ombre.

1.  Nel vasto e pressoché generalizzato consenso che hanno trovato, nei mezzi d’informazione, le ordinanze del Tribunale di Catania con le quali, com’è noto, nei giorni passati è stata negata la convalida del “trattenimento” di taluni migranti irregolari provenienti dalla Tunisia e sbarcati nell’isola di Lampedusa, è pressoché impossibile trovare un minimo di approfondimento critico circa la validità o meno delle motivazioni poste a base di dette ordinanze. Il che, se può, in una qualche misura, giustificarsi quando i laudatores siano esponenti del mondo lato sensu politico, di orientamento opposto a quello del Governo, lo è un po’ meno quando si tratti di studiosi di diritto, dai quali sarebbe lecito aspettarsi un approccio più distaccato e prudente, pur quando l’esito sia comunque quello di una adesione ai provvedimenti in questione. E, d’altra parte, vi è anche da notare che neppure da parte di coloro che (provenienti, per lo più, dal mondo della politica o del giornalismo) hanno contestato la validità dei detti provvedimenti, si è avvertita la necessità di un qualsivoglia approfondimento critico del loro specifico contenuto, essendosi preferito mettere in luce la vera o presunta prevenzione ideologica da cui sarebbero stati mossi i magistrati che ne erano stati autori. Di qui l’ispirazione del presente scritto, volta a colmare, almeno in parte, nei limiti delle modeste possibilità del suo autore, la suddetta lacuna.

2. Cominciamo quindi col dire che i provvedimenti di trattenimento erano stati adottati sulla base dell’art. 6 bis del d.lgs. n. 142/2015, inserito dal DL n. 20/2023 (c.d. “decreto Cutro”) conv. con modif. in legge n. 50/2023. In esso, per quanto al momento interessa, è stabilito che lo straniero richiedente asilo al quale sia applicabile la c.d. “procedura di frontiera” prevista dall’art. 28 bis del d.lgs. n. 25/2008 può essere trattenuto durante lo svolgimento di tale procedura, “al solo scopo di accertare il diritto ad entrare  nel  territorio  dello Stato”, qualora “non abbia consegnato il passaporto o  altro  documento equipollente in corso di validita’, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria”; condizioni, queste, che, entrambe, nei casi in questione, erano pacificamente sussistenti.
Ciò premesso, può osservarsi che nelle ordinanze in questione, nel presupposto che la norma anzidetta sia in contrasto con le direttive europee che dettano le procedure da seguire in materia di riconoscimento dello status di rifugiato, si invoca, anzitutto, il principio della prevalenza del diritto europeo su quello statale, per cui la norma statale andrebbe disapplicata in favore di quella europea, se non conforme a quest’ultima. Ciò sulla scorta, in particolare, di quanto si dice affermato nell’appositamente richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 389 del 1989. Si dimentica, però, che (come puntualizzato in questa stessa sentenza) il principio anzidetto vale soltanto quando la norma europea sia tra quelle “immediatamente applicabili” nell’ordinamento interno. E tali non sono (a differenza, ed esempio, dei Regolamenti), le Direttive non self executing, che acquistano efficacia solo a seguito della trasfusione in provvedimenti interni da parte di ogni singolo Stato. Ne consegue che, qualora una norma interna, pur se adottata in attuazione di una direttiva europea, appaia in contrasto con quest’ultima, il rimedio, in sede giudiziaria, può essere costituito soltanto dalla proposizione di una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost., nella parte in cui impone al Legislatore il rispetto dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”.

3. Ma, a prescindere da ciò, il denunciato contrasto non sembra, poi, neppure ravvisabile, potendosi, anzi, ritenere che la norma introdotta con il citato DL “Cutro” trovi conforto proprio nelle stesse direttive europee alle quali si fa riferimento nelle ordinanze in questione; vale a dire quelle nn. 32 e 33 del 2013. Di esse assumono rilievo, in particolare:
– l’art. 33, comma 2, lett. c) della direttiva n. 32/2013, in cui è previsto che una domanda di protezione internazionale possa essere giudicata “inammissibile” se presentata da soggetto proveniente da un paese “sicuro” quale, nella specie, costituito dalla Tunisia; circostanza, questa, con riguardo alla quale non risulta avanzata, da parte del tribunale di Catania, la benché minima obiezione o riserva;
– l’art. 8, comma 3, lett. c) della direttiva n. 33/2013, in cui è previsto che il trattenimento possa essere disposto anche “per decidere, nel contesto di un procedimento, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio”.
Ora, non sembrerebbe revocabile in dubbio che una domanda di protezione internazionale da ritenersi, per espressa disposizione normativa, fino a prova contraria, “inammissibile”, non può, all’evidenza, conferire il diritto di entrare nel territorio di uno stato. Quando, però, l’ingresso sia comunque irregolarmente avvenuto e la domanda sia stata avanzata (come nei casi in questione), su quella domanda deve comunque aprirsi un “procedimento”, volto appunto a verificare che essa sia effettivamente inammissibile, senza che, nel frattempo (come appare ovvio) il richiedente possa essere materialmente allontanato dal territorio dello Stato. Di qui, allora, la piena applicabilità del disposto di cui al citato art. 8, comma 2, lett.c) della direttiva n. 32/2015, in cui, non a caso, viene precisato che il trattenimento può avvenire “nel contesto di un procedimento” che, nel nostro caso, proprio in quanto avente ad oggetto una domanda di protezione internazionale da presumersi, in partenza, “inammissibile”, comporta, in caso di conferma di tale presunzione, l’esclusione, ora per allora, del “diritto del richiedente di entrare nel territorio”. Significativo, del resto, appare, a tale ultimo riguardo, il fatto che l’art. 35 bis, comma 3, lett. b), del d.lgs. n. 25/2008 include tra i provvedimenti per i quali, in caso di impugnazione, non opera la regola generale dell’efficacia sospensiva,  quello “che dichiara inammissibile la domanda di riconoscimento della protezione internazionale”. Analoga eccezione, peraltro, è contenuta, nello stesso comma 3 del citato art. 35 bis, alle lett. c) e d), per il caso di provvedimenti di rigetto, per “manifesta infondatezza” delle domande di protezione internazionale avanzate da soggetti provenienti da paesi classificati come “sicuri”.
Del resto, che le cose stiano, sostanzialmente, in questi termini, appare implicitamente riconosciuto nel fondamentale passaggio motivazionale contenuto nelle prime ordinanze dello stesso tribunale di Catania, emesse il 29 settembre 2023 (cui fecero seguito quelle di analogo contenuto ma, in parte, diversamente motivate, emesse l’8 ottobre 2023), nelle quali ci si richiama all’ormai familiare art. 8, comma 2, lett. c), della direttiva n. 33/2013, per dire che esso, in effetti,  giustifica il trattenimento del richiedente asilo quando il suo fine sia quello di verificare, prima di riconoscergli il diritto di entrare nel territorio, che “la sua domanda non sia inammissibile, ai sensi dell’art. 33 della direttiva 2013/32”. Il tribunale, però, obietta, al riguardo, che sarebbe mancato, nella specie, l’indispensabile provvedimento del presidente della competente Commissione territoriale che determinasse la procedura da seguire affinchè, sulla base di essa, potesse essere legittimamente disposto il trattenimento. Se ben s’intende, posto che la norma introdotta dal c.d. “DL Cutro” presuppone che sia stata instaurata la “procedura di frontiera” di cui all’art. 28 bis del d.lgs. n. 25/2008 e che, a tal fine, sarebbe stato necessario, ai sensi dell’art. 28 del medesimo decreto legislativo, un apposito provvedimento del presidente della Commissione territoriale, ne deriverebbe, secondo il tribunale,  che la mancanza di tale provvedimento escluderebbe in radice la legittimità del trattenimento disposto dal Questore. Si tratta di una conclusione che, in linea di principio, potrebbe anche condividersi, dovendosi però osservare, allora, che essa, lungi dal fondarsi sulla pur denunciata contrarietà del DL “Cutro” alle Direttive europee, trova invece il suo fondamento soltanto nella ritenuta inosservanza, nel caso specifico, di quanto in esso previsto circa la necessaria, previa instaurazione della “procedura di frontiera”. Il che ridimensionerebbe non poco la rilevanza, come precedente per futuri casi analoghi, della decisione in questione e renderebbe ben poco giustificato il clamore mediatico che, hinc et inde, è stato intorno ad essa sollevato.
Devesi inoltre aggiungere che nelle successive ordinanze dell’8 ottobre 2023 risulta espressamente attestato che vi era invece stato, nei casi che ne formavano oggetto, il provvedimento del presidente della Commissione territoriale che disponeva la “procedura di frontiera”; il che non ha impedito, tuttavia, il rigetto, anche in quei casi, della richiesta di convalida del trattenimento. Ciò sulla base, essenzialmente, della ritenuta violazione dell’art. 43 della direttiva n. 32/2013 nella parte in cui, disciplinando le “procedure di frontiera”, prevede, al par. 1,  che esse possano attuarsi solo “alla frontiera o nelle zone di transito”, laddove, nei casi sottoposti al giudizio del tribunale, era stato disposto il trattenimento in località diverse, pur avendo l’interessato manifestato validamente la volontà di chiedere la protezione internazionale fin dal suo sbarco a Lampedusa e a nulla rilevando che la richiesta fosse stata poi rinnovata a Ragusa, con la sottoscrizione di un modulo denominato “C/3”. Ad avviso del tribunale, inoltre, non poteva neppure ravvisarsi l’operatività della deroga prevista dal comma 3 del citato art. 43 per il caso di presentazione di domande di protezione internazionale da parte di “un gran numero” di soggetti, essendosi il questore limitato a segnalare, nel proprio provvedimento, che “l’elevato numero di richieste di protezione internazionale rende difficoltosa la trattazione della domanda del richiedente nel luogo di arrivo”. Ciò in quanto – si afferma – “la deroga è prevista solo per l’ipotesi di impossibilità di applicare la procedura direttamente alla frontiera di arrivo, laddove il provvedimento del Questore fa riferimento solo a difficoltà di trattazione della domanda”. Argomentazione, questa, che appare, in realtà, alquanto sofistica e pretestuosa, dal momento che, non contestandosi la effettiva sussistenza della segnalata “difficoltà di trattazione” ed essendo questa espressamente posta in relazione all’ “elevato numero di richieste di protezione internazionale”, appare del tutto evidente che essa è stata assunta a giustificazione della mancata effettuazione della procedura direttamente alla frontiera di arrivo. Se, quindi, si voleva contestare, sotto il profilo in discorso, la legittimità della procedura in questione, si sarebbe dovuta semmai censurare – ma non è stato fatto – la mancata dimostrazione di una effettiva “difficoltà di trattazione” e/o della sua riconducibilità all’”elevato numero di richieste”. E vale, comunque, anche in questo caso, “mutatis mutandis”, quanto si è in precedenza osservato a proposito della mancata, previa instaurazione della “procedura di frontiera”, dal momento che, a tutto concedere, si sarebbe in presenza non di un contrasto tra la norma interna, che si è inteso applicare, e la norma europea, ma soltanto di una inosservanza di quest’ultima nell’applicazione della norma interna che, di per sé, quell’inosservanza non avrebbe richiesto.
È poi appena il caso di accennare, da ultimo, per esaurire il discorso relativo alle norme europee di cui si è fatta menzione all’inizio, che non sembra possa riconoscersi fondamento alcuno a quanto affermato nelle ordinanze del 29 settembre circa la pretesa inapplicabilità dell’art. 8, comma 3, lett. c), della Direttiva n. 33/2013 nel caso – ricorrente nella specie – di stranieri soccorsi in mare, poiché a costoro il diritto di ingresso nel territorio nazionale sarebbe garantito in partenza dalla “normativa interna e internazionale”, costituita, in particolare, dall’art. 10 ter del d.lgs. n. 286/1998 (T.U. sull’immigrazione) e dal punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, quale emendata a seguito della risoluzione del Maritime Safety Committee dell’Omi. Basti osservare, a confutazione di tale assunto, che un conto è il “diritto all’ingresso” di chiunque, “migrante” o non migrante, sia  stato soccorso in mare, la cui finalità si esaurisce nella prestazione della necessaria, immediata assistenza di cui egli abbia bisogno; altro conto è il “diritto all’ingresso” – al quale si riferisce appunto la citata norma della Direttiva europea – che si assuma derivante dalla proposizione di una valida domanda di protezione internazionale da parte di chiunque sia giunto, in qualsiasi modo, a toccare il territorio dello Stato.

4. Va ora preso in esame un ulteriore motivo di ritenuta illegittimità del trattenimento dei “migranti”, che   è quello concernente il mancato versamento della somma richiesta come garanzia finanziaria, a proposito del quale si è sostenuto, in sintesi, da parte del tribunale:
a) che la suddetta garanzia si configurerebbe non come “misura alternativa al trattenimento” – quale, in effetti, prevista dall’art. 8, comma 4, della Direttiva n. 33/2013 –  ma come “ requisito amministrativo imposto al richiedente prima di riconoscere i diritti conferiti dalla direttiva 2013/33/UE, per il solo fatto che chiede protezione internazionale”;
b) che l’avvenuta fissazione del suo importo, ai sensi del DM 14 settembre 2023, nella misura ritenuta idonea a garantire allo straniero, “per il periodo massimo di trattenimento, pari a quattro settimane (ventotto giorni), la disponibilità di un alloggio adeguato sul territorio nazionale, della somma occorrente al rimpatrio e di mezzi di sussistenza minimi necessari”, sarebbe in contrasto con gli artt. 8 e 9 della direttiva n. 33/2013, quali interpretati dalla Corte di giustizia europea con la sentenza 14 maggio 2020 nelle cause riunite C-924/19 PPU e C-925/19 PPU.
Ora, con riguardo alla prima di dette osservazioni, la stessa appare di non facile comprensione giacchè, non sostenendosi che, in concreto, sia stata negata al migrante la possibilità di prestare, qualora lo avesse voluto e ne avesse avuto i mezzi, la garanzia finanziaria prevista dalla legge, grazie alla quale avrebbe potuto evitare il trattenimento, non si vede come e perché la detta garanzia non fosse qualificabile, nella specie, come “misura alternativa al trattenimento” ma piuttosto – se ben s’intende – come precondizione indebitamente richiesta per poter fruire dei non meglio precisati diritti conferiti dalla direttiva n. 33/2013. Affermazione, questa, a sostegno della quale non è neppure dato comprendere quale rilievo possa avere – come invece sostenuto, in particolare nelle ordinanze dell’8 ottobre 2023 – il fatto che l’art. 14, comma 1 bis, del d.lgs. n. 286/1998 (T.U. sull’immigrazione) preveda come misure alternative al trattenimento in vista dell’esecuzione dell’espulsione soltanto quelle costituite dalla consegna del passaporto, dall’obbligo di dimora e dall’obbligo di presentazione periodica  ad un ufficio della forza pubblica; come pure il fatto che l’art. 6 bis, comma 4, del d.lgs. n. 142/2015 (quello appunto introdotto dal DL “Cutro”) preveda l’applicabilità, “in quanto compatibile”, dell’art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 142/2015, il quale, nel dettare le modalità di adozione dei provvedimenti di trattenimento in genere, richiama a sua volta “per quanto compatibile”, il citato art. 14 del d.lgs. n. 286/1998, ivi comprese, espressamente, anche le suddette misure alternative. Appare comunque sufficiente osservare, al riguardo, che ogni ipotetico contrasto fra le disposizioni ora menzionate e la norma che ha inteso prevedere, come “misura alternativa” al trattenimento, la prestazione della garanzia finanziaria, trova la sua chiara e semplice soluzione nella riserva costituita dall’espresso limite (come si è appena visto) della “compatibilità” delle prime rispetto alla seconda; limite tanto più significativo in quanto l’applicazione delle misure alternative previste dall’art. 14 del d.lgs. n. 286/1998 dipende soltanto da una scelta discrezionale in tal senso da parte del Questore, mentre la prestazione della garanzia finanziaria può essere frutto soltanto della libera decisione dell’interessato, a fronte della quale il questore altro non può fare se non prenderne atto e rinunciare, quindi, a disporre il trattenimento.
Passando quindi all’esame della pretesa contrarietà dei criteri sulla base dei quali è stato fissato l’importo della garanzia finanziaria rispetto all’interpretazione che degli artt. 8 e 9 della direttiva n. 33/2013 risulta fornita dalla richiamata sentenza della Corte di giustizia europea (come sostenuto, in particolare, nelle ordinanze del 29 settembre 2023), vale osservare che il principio affermato  in detta sentenza e riportato dal tribunale, secondo cui, nella parte che qui più interessa, gli articoli summenzionati debbono essere interpretati “nel senso che ostano, in primo luogo, a che un richiedente protezione internazionale sia trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità”, fu formulato (come risulta dalla lettura integrale della pronuncia in discorso, reperibile sul sito internet della Corte), in risposta ad uno specifico quesito, che era del seguente, testuale tenore: “Se sia conforme all’articolo 8 della [direttiva 2013/33], applicabile in forza dell’articolo 26 della [direttiva 2013/32], il fatto che si procede al trattenimento del richiedente per un periodo superiore alle quattro settimane, previsto all’articolo 43 della [direttiva 2013/32], solo perché lo stesso non può soddisfare le proprie necessità (in termini di vitto e di alloggio) in mancanza dei mezzi di sussistenza a tal fine”. Appare quindi evidente che il principio in questione non si attaglia per nulla alle fattispecie di cui il tribunale di Catania è stato chiamato ad occuparsi, giacchè in esse non si faceva questione alcuna circa la possibile durata del trattenimento oltre i limiti consentiti, ma solo ed esclusivamente circa la legittimità della sua applicazione, in assenza di garanzia finanziaria. Il fatto, quindi, che l’importo di quest’ultima sia stato fissato dal richiamato DM 14 settembre 2023 sulla base dei criteri precedentemente indicati, oltre a non presentare, in sé e per sé, alcun profilo di intrinseca irragionevolezza (di cui, peraltro, anche il tribunale non fa il benché minimo cenno), non può neppure dirsi in alcun modo contrastante con il dictum della Corte di giustizia europea.

5. Rimarrebbe ora da esaminare soltanto un ultimo motivo di asserita illegittimità del disposto trattenimento dei “migranti” costituito, secondo quanto sostenuto in particolare nelle ordinanze del 29 settembre, dal difetto di motivazione circa le “esigenze di protezione manifestate” e circa la “necessità e proporzionalità della misura in relazione alla possibilità di applicare misure meno coercitive”. Si tratta, però, come appare evidente, di questione essenzialmente di fatto, in relazione alla quale non si prospettano problematiche attinenti alla legittimità della norma di cui è stata fatta applicazione ovvero ai criteri sulla base dei quali essa dovrebbe essere interpretata. Di tale questione non metterebbe conto, quindi, occuparsi, se non fosse per segnalare soltanto quanto disposto da due norme delle quali il tribunale avrebbe forse fatto bene, per quanto valesse, a ricordare l’esistenza. Si tratta dell’art. 28 ter, comma 1, lett. b), e dell’art. 9, comma 2 bis, del d.lgs. n. 25/2008. La prima di esse stabilisce che la domanda di protezione internazionale è già di per sé da considerare “manifestamente infondata”, se il richiedente proviene da un paese considerato “sicuro”. La seconda afferma che a legittimare il rigetto di una tale domanda non è necessaria alcuna specifica motivazione, essendo sufficiente che si dia atto “esclusivamente che il richiedente non ha dimostrato la sussistenza di gravi motivi per ritenere non sicuro il Paese designato di origine sicuro in relazione alla situazione  particolare del richiedente stesso”. E vale la pena di ricordare anche, a questo punto, che, ai sensi dell’art. 2 bis, comma 2, del d.lgs. n. 25/2008, è necessario e sufficiente, perché un paese possa dirsi “sicuro”, che, “sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale”, possa darsi per dimostrato che “in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 7 del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
Ora, dalle tre ordinanze del tribunale di Catania del 29 settembre 2023, risulta che in una delle richieste di protezione internazionale si sosteneva che il richiedente era “perseguitato per caratteristiche fisiche che i cercatori d’oro del suo Paese, secondo credenze locali, ritengono favorevoli nello svolgimento della loro attività (particolari linee della mano, ecc.)”. In un’altra si rappresentava che i tre figli messi al mondo dalla moglie del richiedente erano tutti deceduti in tenera età per la mancanza di adeguate cure, essendo queste ottenibili, in Tunisia, solo a pagamento. Nella terza si indicava come motivo dell’allontanamento del richiedente dal suo paese quello costituito da “minacce” che egli avrebbe subito ad opera di suoi creditori. Appare, quindi, ictu oculi evidente che in nessuno di tali casi, potesse darsi, neppure lontanamente, per dimostrata la sussistenza di una condizione di “insicurezza” nella quale il richiedente si fosse venuto a trovare nel suo paese per la sua “situazione particolare”, dovendo questa comunque riferirsi al pericolo di “atti di persecuzione” o a taluno fra gli altri pericoli specificamente indicati nel citato art. 2 bis, comma 2, del d.lgs. n. 25/2008. E tanto bastava, alla stregua della normativa sopra richiamata, ad escludere la necessità di una specifica motivazione a sostegno della inammissibilità delle richieste in discorso.