L’immigrazione può dare un contributo all’Italia, ma occorre attirare lavoratori altamente qualificati e favorire l’integrazione e la formazione chi proviene da altri paesi.

Banca d’Italia
Relazione annuale anno 2018

Considerazioni finali del governatore Ignazio Visco
31 maggio 2019


 

- Estratto -


Le difficoltà strutturali dell’economia italiana

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L’Italia invecchia rapidamente e la popolazione tende a ridursi; sono caratteristiche comuni a molti paesi dell’Unione europea, più marcate da noi. Nello scenario mediano delle previsioni pubblicate dall’Eurostat nei prossimi 25 anni la quota della popolazione con almeno 65 anni raggiungerà il 28 per cento nel complesso dell’Unione, il 33 in Italia; cresceranno di conseguenza le pressioni finanziarie sui sistemi pensionistici e di assistenza. La popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni diminuirà di 6 milioni nel nostro paese, nonostante l’ipotesi di un afflusso netto dall’estero di 4 milioni di persone in questa classe di età (fig. 6).

Figura 6

La riduzione della capacità produttiva connessa con gli andamenti demografici va contrastata con aumenti decisi nella partecipazione al lavoro e nella produttività. Pur salito negli ultimi venti anni dal 61 al 66 per cento, il tasso di partecipazione al lavoro è oggi ancora inferiore di 8 punti percentuali alla media europea. Come negli altri paesi, l’aumento ha riguardato soprattutto i lavoratori più anziani, in connessione con le modifiche apportate al sistema pensionistico. Anche la partecipazione femminile è aumentata, dal 47 al 56 per cento. L’incremento è tuttavia inferiore a quello registrato nel resto dell’Unione europea e il tasso di attività degli uomini è ancora superiore di 19 punti a quello delle donne, uno dei divari più elevati in Europa. Esso indica la presenza di una grande potenzialità di aumento della partecipazione al lavoro e mette in luce la necessità di individuare e introdurre con decisione misure, servizi e incentivi volti ad accrescere l’occupazione femminile.

L’immigrazione può dare un contributo alla capacità produttiva del Paese, ma vanno affrontate le difficoltà che incontriamo nell’attirare lavoratori a elevata qualificazione così come nell’integrazione e nella formazione di chi proviene da altri paesi. Dai primi anni Novanta in Italia il numero degli immigrati supera ogni anno quello degli emigrati; dopo un lieve calo durante la crisi dei debiti sovrani, il saldo ha continuato a salire, portandosi nel 2018 a quasi 190.000 persone, lo 0,3 per cento della popolazione. La quota di laureati tra gli stranieri, pari a quasi il 13 per cento, è meno della metà di quella media registrata nell’Unione. La produttività e la capacità imprenditoriale risentono inoltre negativamente del progressivo aumento delle quote di giovani e di laureati che ogni anno lasciano l’Italia, riflesso dei ritardi strutturali dell’economia: l’emigrazione dei giovani ha raggiunto lo 0,5 per cento nel 2017, quintuplicandosi nell’arco di dieci anni; quella dei laureati, pari allo 0,4 per cento, è raddoppiata.

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L’Italia e l’Europa

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Venti anni fa nasceva l’euro. La partecipazione dell’Italia alla moneta unica fin dall’avvio non era scontata, ma il Paese perseguì con determinazione gli obiettivi economici e finanziari necessari per raggiungere quel traguardo. Le aspettative erano alte; il passo coraggioso verso un’unione sempre più profonda tra i paesi europei sanciva l’impegno a proseguire il cammino di sviluppo avviato sulle macerie della seconda guerra mondiale; pur presente, non era diffusa la percezione di quanto ci fosse ancora da fare per completare l’Unione economica e monetaria e di quanto grande fosse la responsabilità affidata alla Banca centrale europea in assenza di un governo politico dell’economia.

Ad altre sfide l’Italia non ha risposto con la stessa determinazione. Ha reagito con ritardo ai cambiamenti imposti dal progresso tecnologico e dall’apertura dei mercati globali, restando esposta più di altri paesi alla concorrenza delle economie emergenti. Non ha completato il percorso di risanamento dei conti pubblici avviato negli anni Novanta, accollandosi i rischi connessi con un’elevata dipendenza dai mercati finanziari per il rifinanziamento del debito pubblico.

Questa duplice debolezza ha esacerbato da noi tensioni sperimentate anche nelle altre economie avanzate. Un Paese dove la produttività già ristagnava ha dovuto sopportare le conseguenze di una crisi finanziaria globale avviata in un altro continente e di una crisi dei debiti sovrani che non aveva contribuito a innescare. La sofferenza economica e sociale è stata amplificata dalle difficoltà, effettive e percepite, incontrate nella gestione di flussi migratori crescenti.

L’area dell’euro non aveva l’organizzazione di governo e gli strumenti per affrontare crisi di questa portata. La politica monetaria unica, nel perseguire la stabilità dei prezzi nel medio periodo, può attenuare le difficoltà congiunturali comuni, non può intervenire a beneficio di singoli Stati, né può risolvere i problemi strutturali, che riguardino un solo paese o tutta l’area. Ma addossare all’Europa le colpe del nostro disagio è un errore; non porta alcun vantaggio e distrae dai problemi reali.

L’Italia ancora fatica a riprendersi dalla doppia recessione perché paga il prezzo di un contesto che – per qualità dei servizi pubblici e rispetto delle regole – è poco favorevole all’attività imprenditoriale. Risente di un ritardo tecnologico grave, frutto di una struttura produttiva frammentata e sbilanciata verso aziende che trovano difficoltà a crescere e a innovare. Subisce il peso delle distorsioni prodotte dall’evasione fiscale e quello del debito pubblico, che rende più costosi i finanziamenti per le famiglie, per le imprese e per le banche, oltre che per lo stesso Stato. Condizioni di costante incertezza comprimono gli investimenti delle imprese e i consumi delle famiglie. Ne soffre il lavoro, cresce il disagio sociale.

L’andamento dell’economia e il “rischio paese” si riflettono, a loro volta, sulle condizioni delle banche. I progressi nella qualità del credito, nella redditività, nel patrimonio degli intermediari che abbiamo osservato negli ultimi anni rispecchiano in molti casi sforzi importanti, sospinti dall’azione della Vigilanza, favoriti dal miglioramento della congiuntura e dalle condizioni finanziarie distese prevalse fino alla primavera dello scorso anno. La possibilità che rischi macroeconomici tornino a investire un settore finanziario ancora in ritardo nell’adeguare la propria struttura è un elemento di vulnerabilità di cui bisogna essere consapevoli. Sostenere la crescita e allentare le tensioni sui mercati finanziari resta cruciale anche per garantire la piena funzionalità di quest’organo vitale del sistema economico.

Se alziamo lo sguardo oltre l’orizzonte della congiuntura non possiamo ignorare il rischio, implicito nelle tendenze demografiche, di un netto indebolimento della capacità produttiva del Paese e la prospettiva di una forte pressione sulle finanze pubbliche. Da qui al 2030, senza il contributo dell’immigrazione, la popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni diminuirebbe di 3 milioni e mezzo, calerebbe di ulteriori 7 nei successivi quindici anni. Oggi, per ogni 100 persone in questa classe di età ce ne sono 38 con almeno 65 anni; tra venticinque anni ce ne sarebbero 76. Queste prospettive sono rese più preoccupanti dall’incapacità del Paese di attirare forze di lavoro qualificate dall’estero e dal rischio concreto di continuare anzi a perdere le nostre risorse più qualificate e dinamiche.

Ccomposizione del bilancio pubblico più orientata verso misure a sostegno del lavoro e dell’attività produttiva, una strategia rigorosa e credibile per la riduzione dell’incidenza del debito pubblico, un disegno di riforme strutturali di ampio respiro, volto a rimuovere gli ostacoli di natura burocratica e amministrativa alla concorrenza, agli investimenti in capitale fisico e in capitale umano possono contribuire a un ritorno a tassi di crescita più elevati e ristabilire la fiducia nel mercato dei titoli pubblici. Un’efficace azione di contrasto dell’evasione, nell’ambito di un’ampia riforma fiscale, potrà facilitare questo processo.

Va favorito in tutti i modi l’aumento dei tassi di partecipazione al mercato del lavoro, prolungando l’attività in linea con l’aumento dell’aspettativa di vita ed eliminando gli ostacoli al lavoro femminile; va recuperato pienamente allo sviluppo del Paese il Mezzogiorno, dove risiede un terzo della popolazione. Alla politica economica spetta il compito di definire la cornice normativa, fornendo incentivi adeguati e rimuovendo i freni all’attività produttiva; ma sta alle imprese cogliere le occasioni che offrono il mercato e la tecnologia, essere pronte a crescere, anche aprendosi a contributi esterni di capacità e di capitale; a chi studia e lavora contribuire al cambiamento ricercando nuove e maggiori competenze. Gli intermediari finanziari dovranno essere in grado, nel loro stesso interesse, di appoggiare con prudenza, ma anche con sagacia, questo processo. Serve uno sforzo corale, la partecipazione di tutti, lungo una direzione di marcia che la politica deve indicare con chiarezza.

L’appartenenza all’Unione europea è fondamentale per tornare su un sentiero di sviluppo stabile: è il modo che abbiamo per rispondere alle sfide globali poste dall’integrazione dei mercati, dalla tecnologia, dai cambiamenti geopolitici, dai flussi migratori. La crescita istituzionale dell’Europa ha accompagnato quella economica di tutti i paesi del continente: ha aperto un mercato più ampio alle imprese e ai consumatori, reso disponibili maggiori fondi a sostegno delle aree svantaggiate, facilitato la cooperazione in campi strategici, garantito un quadro di stabilità monetaria. Saremmo stati più poveri senza l’Europa; lo diventeremmo se dovessimo farne un avversario.

Al completamento dell’Unione dobbiamo partecipare con responsabilità, in modo costruttivo e senza pregiudizi, per contribuire a rafforzarne le istituzioni, per il benessere di tutti. Devono essere chiare le responsabilità da condividere, gli obiettivi da perseguire, gli strumenti da utilizzare, nella consapevolezza che, anche per chi risparmia, investe e produce, “le parole sono azioni” e che “nell’oscurità le parole pesano il doppio”. La lungimiranza dimostrata da chi ha eretto le fondamenta del progetto europeo deve tornare a guidare le azioni di oggi. È indispensabile per garantire un futuro di pace e di prosperità alle prossime generazioni.

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