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Status di rifugiato e discriminazione di genere.


L’incertezza che si cela attorno al rapporto tra status di rifugiato e discriminazione di genere, è un problema tanto attuale quando complesso. Che si riflette inevitabilmente nel modo del diritto. Infatti, manca, ad oggi, un’interpretazione univoca da parte della dottrina e della giurisprudenza riguardo a tale rapporto.

Per cercare di districarsi attraverso tale complessa problematica, occorre prendere le mosse dalle fonti normative, soprattutto sovranazionali, che riconoscono una tutela alle persone che subiscono, nei paesi di origine, discriminazioni di genere, con particolare riferimento alle persone LGBTI e alle donne vittime di violenze domestiche o persecuzioni.

La Convenzione di Ginevra, tra i cinque motivi in base ai quale può individuarsi il fondato timore di persecuzione annovera, anche l’appartenenza a un determinato gruppo sociale.

Difatti, si definisce gruppo sociale quel “gruppo di persone che condividono una caratteristica innata, una storia comune, o che sono percepite come un gruppo dalla società”. Si tratta di caratteristiche obiettive, immodificabili, non rinunciabili senza grave sacrificio dagli appartenenti al gruppo stesso, oppure connesse dal modo in cui il gruppo viene percepito dalla società esterna.

Talvolta, anche gruppi molto numerosi di individui possono essere considerati gruppi sociali ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato. Vi sono, tuttavia, situazioni in cui, all’interno di un gruppo molto ampio, che non risulti suscettibile di essere considerato a rischio di persecuzione nella sua interezza, possano essere individuati sottogruppi più piccoli, che sono, invece, concretamente esposti a tale rischio. Vi possono essere casi in cui, per esempio, mentre le donne in quanto tali non sono a rischio di persecuzione, lo sono alcune categorie di donne, quali ad esempio le donne accusate di adulterio, le donne nubili o le donne lavoratrici.

Inoltre, la lettera d), dell’art. 10 della direttiva UE 2004/83, chiarisce che il riconoscimento di un determinato gruppo sociale può essere fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale. Tale disposizione conferma la possibilità di considerare le persone LGBTI come gruppi potenzialmente esposti a persecuzione.

Ciò premesso, occorre dare atto delle difficoltà nell’identificare la corretta tutela da apprestare nelle singole ipotesi, sicché, si assiste anche nell’ambito della giurisprudenza di uno stesso Tribunale a pronunce e concessioni tra loro divergenti.

Affrontare il tema della “persecuzione” ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, quindi, non è affatto agevole.

In primo luogo, ci si trova dinanzi a differenti interpretazioni e applicazioni delle tre forme di protezione.

In secondo luogo, le motivazioni per concedere una determinata protezione variano a seconda del contesto culturale, sociale, religioso o familiare del soggetto che presenta la domanda.

Può accadere che in alcuni contesti socio-culturali, l’appartenenza a un differente “gruppo sociale” comporti l’esposizione al rischio di subire torture, privazioni della libertà personale o addirittura la pena di morte. Può, inoltre, accadere che la persecuzione non derivi dallo Stato, bensì dalla famiglia o dalla comunità di riferimento, potendo consistere, a titolo esemplificativo, in matrimoni forzati, stupri, gravidanze forzate, maltrattamenti in famiglia, in contesti nei quali la vittima risulta priva di forme di tutela.

Il complesso quadro sinteticamente descritto ha comprensibilmente generato un certo disorientamento in seno alla dottrina e alla giurisprudenza. Anzitutto occorre considerare che in relazione alla particolare condizione in cui si trova il cittadino straniero, può essergli riconosciuto lo status di rifugiato, oppure può essergli accordata la misura della protezione sussidiaria o in ulteriore alternativa quella umanitaria. [1]

La differente tutela attiene ai diversi presupposti normativi dettati per ciascuna delle tre forme di protezione, nonché, ad una serie di parametri oggettivi e soggettivi che si riferiscono alla storia personale del richiedente, alle ragioni delle richieste e ai paesi di provenienza.

Nel panorama giuridico italiano, per esempio, si registrano casi riguardanti soggetti omosessuali che hanno portato a differenti forme di tutela.

Una vicenda portata all’attenzione del Tribunale di Bologna [2], ad esempio, ben sintetizza quanto appena illustrato. Un cittadino Nigeriano riferiva di essere scappato dal proprio paese a seguito della scoperta del suo orientamento sessuale da parte della polizia e di alcuni membri della comunità.

Il Giudice muove dalla premessa che il riconoscimento dello status di rifugiato fondato sull’orientamento sessuale vada ricondotto “al motivo di appartenenza ad un determinato gruppo sociale”, per poi concludere che il fondato timore di cui all’art. 2 del d.lgs. 251/2007, nel caso di soggetti omosessuali provenienti da paesi in cui sussiste la criminalizzazione inequivocabile e diretta dell’omosessualità, deve considerarsi in re ipsa. Inoltre, proprio con riferimento alla criminalizzazione, si legge nell’ordinanza come in Nigeria il problema sia legato non solo alla criminalizzazione legale, ma anche a una forma di “criminalizzazione sociale”: tali soggetti, infatti, vengono discriminati ed emarginati dalla società.

Tutto ciò, ha portato il Giudice bolognese, a ritenere di dover concedere lo status di rifugiato, alla luce delle valutazioni dei rischi cui sarebbe esposto il ricorrente in caso di rientro in Nigeria.

Sul riconoscimento dello status di rifugiato a uno straniero omosessuale si è pronunciata anche la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 15981/2012 [3], legittimando la concessione di tale forma di protezione internazionale sulla base di una situazione oggettiva di persecuzione nel paese di origine. Nel caso di specie si trattava del Senegal. La Corte di cassazione ha affermato che l’esistenza di norme penali sanzionatorie di atti omosessuali costituisce “di per sé una condizione generale di privazione del diritto fondamentale di vivere liberamente la propria sfera sessuale ed affettiva”, poiché si costringe la persona a scegliere tra violare la legge penale, o tacere la propria condizione sessuale. Ed è proprio questa scelta che compromette grandemente la libertà personale, e pone questi soggetti in una situazione oggettiva di persecuzione, che giustifica l’applicazione della protezione richiesta.

Con questa pronuncia della Suprema Corte, si consolida l’indirizzo che qualifica la criminalizzazione dell’orientamento sessuale alla stregua di una limitazione in sé dell’esercizio di un diritto umano.

La criminalizzazione è uno dei problemi principali, con la conseguenza che la stessa assume un ruolo di indubbia rilevanza. Ciò, però, non deve far venire meno il necessario rispetto di tutti i presupposti previsti per le tre forme di protezione, soprattutto con riferimento all’esame della situazione soggettiva.

Sotto quest’ultimo profilo, è rilevante la sentenza del Tribunale di Milano, n. 3785/2017 [4], nella quale il Giudice ha rigettato la richiesta di protezione internazionale proposta da un cittadino omosessuale del Ghana. Il ricorrente aveva riferito di essere scappato dal suo paese nel 2008, poiché l’omosessualità lì è considerata un reato e dunque, temeva di poter essere arrestato. Asseriva, inoltre, di essersi trasferito prima in Niger e subito dopo in Libia. Il Giudice, ritenendo che il racconto fosse vago e contraddittorio, e che non sussistessero i presupposti richiesti dalla legge per poter concedere lo status di rifugiato, rilevava, oltre all’artificiosità del racconto, la mancanza di prove che testimoniassero la persecuzione subita.

È indubbio che nel momento della valutazione del caso concreto, occorre un esame dei fatti e delle circostanze, ossia una valutazione dei rischi di esposizione a forme di persecuzione, sia ai fini del rilascio dello status di rifugiato, sia quando il rischio sia rappresentato da un danno grave che dà luogo alla protezione sussidiaria.

Certamente il richiamo alla condizione generale del paese di origine non è sufficiente ai fini della concessione della protezione sussidiaria, in quanto, in siffatte ipotesi, occorre la prova della sussistenza della persecuzione diretta, grave e personale, oltre a quella della circostanza che il pericolo per l’incolumità del richiedente debba comportare un pregiudizio attuale in ipotesi di forzato rientro nel paese di origine. [5]

Con riferimento alla discriminazione di genere, occorre tenere in considerazione anche le situazioni che alcune donne sono costrette a vivere nei propri paesi di origine dove sono vittime di violenze domestiche, abusi sessuali o situazioni di matrimonio forzato. [6]

Anzitutto, è opportuno delineare il quadro generale delle vittime della violenza di genere: si tratta di donne isolate, poco scolarizzate, provenienti da situazioni sociali degradate, le quali spesso non riescono a dimostrare il pregiudizio o il danno grave che si trovano a subire nel paese di provenienza.

Questo comporta una maggiore difficoltà in ordine alla scelta della tutela da riconoscere.

La Corte di cassazione, sez. VI, con l’ordinanza n. 12333 del 2017, ha esaminato il ricorso di una donna di origine marocchina che da molti anni era vittima di abusi e violenze da parte del marito. La Suprema Corte ha affermato che tali violenze domestiche sono contenute nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne vittime di violenza domestica. In particolare, ha ribadito come tale forma di violenza rientri nell’ambito dei trattamenti inumani e degradanti considerati dall’art. 14 del d.lgs. 251/2007. Ha, quindi, concluso affermando la necessità di verificare se in caso di danno grave come quello in esame, lo Stato marocchino sia in grado di garantire una adeguata forma di tutela.

In quella vicenda la Corte ha accertato che, per le ipotesi suddette, la legge marocchina prevedeva una blanda sanzione di tre mesi di reclusione, e per questa ragione, ha ritenuto di concedere alla donna la protezione sussidiaria.

In tema di protezione sussidiaria, potrebbe costituire grave violazione della dignità anche la costrizione a un matrimonio non voluto, considerato un trattamento degradante che integra un danno grave, la cui minaccia ai fini del riconoscimento della misura, può provenire anche da soggetti diversi dallo Stato, allorché le autorità pubbliche, quali le forze di polizia, militari e la magistratura, nulla facciano per fornire una protezione adeguata. [7] In tali casi, quando vi è un danno grave accertato, sono da ritenersi sussistenti i presupposti previsti ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.

Nell’attuale sistema pluralistico delle misure di protezione internazionale, l’ultima forma prevista nel nostro Stato è la protezione umanitaria, disciplinata dall’art. 5, comma 6, d.lgs. 286/1998. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è una previsione di carattere generale che viene in rilievo per lo più in due ipotesi: in primo luogo quando lo straniero abbia richiesto asilo e la Commissione territoriale non abbia ritenuto di rilasciare né il permesso per protezione internazionale, né quello per protezione sussidiaria; in secondo luogo quando non può essere disposta l’espulsione o il respingimento per il rischio che lo straniero sia vittima di persecuzioni per motivi di razza, lingua, religione, condizioni personali o sociali.

I più recenti orientamenti della giurisprudenza nazionale in tema di permesso di soggiorno per motivi umanitari traggono origine dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale che si registra in materia. Nella pratica, si assiste alla concessione del permesso in base a valutazioni legate alla particolare vulnerabilità di alcuni soggetti, come nel caso delle donne vittime di violenza, o nei casi in cui i soggetti non rientrino nelle misure tipiche, o perché le ragioni hanno carattere di temporaneità, o perché vi è un impedimento alla concessione della protezione sussidiaria, o perché intrinsecamente diverse nel rispetto della protezione internazionale, ma comunque caratterizzate da un’esigenza qualificabile come umanitaria, quale può essere la violenza sociale. [8]

Il permesso di soggiorno per motivi umanitari può essere concesso per ragioni diverse rispetto alle altre due forme di protezione, ciò non di meno, ai fini del suo rilascio devono essere valutate le condizioni che possono esporre il richiedente a rischi apprezzabili: situazioni di grave instabilità, violenza sociale, vulnerabilità personale, con particolare riferimento alle condizioni di salute, all’età e alle condizioni familiari e sociali.

Da quanto esposto fin qui, si può notare come il panorama normativo e giurisprudenziale sia vasto e poco omogeneo. Solo in tempi recenti ci si è posto il problema della persecuzione, soprattutto con riferimento alle persone LGBTI, eccedendo talvolta nella concessione degli strumenti di protezione, anche in mancanza dei presupposti normativi richiesti. Se l’assenza di norme discriminatorie non può di certo bastare a eliminare la disparità di trattamento, il timore fondato di una eventuale persecuzione da parte di soggetti diversi dagli organi statali dovrebbe indirizzare i Tribunali a concedere eventualmente la protezione umanitaria, che permette un riesame della situazione al termine del periodo concesso.

Le difficoltà interpretative dimostrare dalle Commissioni territoriali e della giurisprudenza rendono ancora più complesso definire criteri generali per la concessione delle forme di protezione. Inoltre l’esame delle situazioni soggettive da compiersi caso per caso e la difficoltà di dimostrare la persecuzione rendono la materia estremamente complessa.

Resta critico, tra l’altro, l’aspetto della prova degli atti persecutori, ancora di più se l’oggetto della verifica investe la sfera sessuale della persona e la dimostrazione delle violenze subite. Proprio con riferimento a quest’ultimo punto si è pronunciata la Corte di giustizia dell’Unione europea il 2 dicembre 2014, cercando di affermare dei principi da poter utilizzare soprattutto con riferimento alle persone LGBTI.

Il punto di partenza deve essere la dichiarazione presentata dal richiedente. Infatti, a norma dell’art. 3 del d.lgs. 251 del 2007, il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda, tutti gli elementi e i documenti disponibili idonei a motivare la stessa, che verranno esaminati dalle autorità dello Stato insieme al richiedente, il quale dovrà fornire una versione plausibile e coerente con i documenti presentati e con la situazione che si è trovato ad affrontare.

A questo punto occorre rilevare che le domande fondate sull’orientamento sessuale incontrano due problemi: la maggior parte delle volte non sono adeguatamente sostenute da elementi di prova; inoltre, vi può essere una difficoltà per il richiedente a narrare il proprio vissuto.

Nella stessa sentenza la Corte enuclea una serie di divieti per gli intervistatori/decisori, ritenendo alcuni mezzi di prova incompatibili con la Carta dei diritti umani, come gli interrogatori concernenti i dettagli delle pratiche sessuali, o l’assoggettamento ad eventuali test per stabilire l’orientamento sessuale di una persona. Non esistendo delle caratteristiche universali che tipicizzano il comportamento delle persone LGBTI, il fatto che un richiedente asilo non sia in grado di rispondere a tali domande non può essere una condizione sufficiente per considerarlo non credibile, né potrà essere dirimente a tal fine il fatto che lo stesso non voglia raccontare gli aspetti intimi della propria vita privata. [9]

All’indomani dell’introduzione di tali divieti la Corte di giustizia si è pronunciata nuovamente, abolendo i test psicologici ai fini dell’accertamento dell’orientamento sessuale del richiedente.

Secondo la Corte, in tali circostanze il ricorso a una perizia psicologica per accertare l’orientamento sessuale costituisce un’ingerenza nel diritto alla vita privata della persona. Peraltro, la Corte ritiene che l’impatto di una siffatta perizia sulla vita privata sia sproporzionato rispetto all’obiettivo, e osserva, in particolare, che detta ingerenza è particolarmente grave, in quanto mette in luce gli aspetti più intimi della vita del richiedente. [10]

La Corte sottolinea che, in forza della direttiva, in una situazione in cui l’orientamento sessuale del richiedente non è suffragato da prove documentali, le autorità nazionali, possono basarsi sulla coerenza e sulla plausibilità delle dichiarazioni rese dalla persona interessata e conclude affermando che il ricorso a una perizia psicologica volta all’accertamento dell’effettivo orientamento sessuale non è considerata conforme alla direttiva considerata alla luce della carta.

Concedere protezione all’interno di uno Stato sulla base della sola plausibilità delle dichiarazioni rese dall’interessato comporta degli ulteriori aspetti problematici e anche su questo occorre riflettere. Dichiarare irrinunciabile l’orientamento sessuale presuppone che venga apprestata una tutela ai soggetti che subiscono discriminazioni di genere, ma ciò deve essere fatto esclusivamente alla luce della normativa esistente. La mancanza di una direttiva generale non può e non deve tradursi nel riconoscimento di forme di protezione anche nei casi in cui non ci siano i presupposti. Qualora ci si trovi in situazioni di incertezza, non dovrebbe essere concessa alcuna forma di protezione se si ritiene non siano integrati i presupposti specifici e se non si riscontrano motivi umanitari.

In conclusione, ad oggi si registra un contesto di soluzioni difformi e divergenti ed è dunque auspicabile una direttiva o quanto meno un maggiore impegno per cercare di risolvere la situazione di incertezza nel rigoroso rispetto della normativa.

 

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Note:

1) Cass. civ., sez. VI-1, ordinanza, 21.06.2012, n. 10375

2) Tribunale di Bologna, sez. I civile, Giudice Tisselli, del 15 luglio 2017

3) Cass. civ, 01.09.2012 n. 1598

4) Corte d’appello di Milano, sez. V. civile, sent. n. 3785/2017

5) Trib. Milano, sez. I, 12.07.2011

6) E. RIGO, Donne attraverso il Mediterraneo. Una prospettiva di genere sulla protezione internazionale

7) Cass. civ., sez. IV-1, ordinanza, 18.11.2013, n. 25873

8) Corte d’appello di Milano, sent. n. 873/2017; Corte d’appello di Milano, sent. n. 717/2017

9) M. SIGNORINI, La valutazione delle richieste di protezione internazionale fondate sull’orientamento sessuale alla luce della sentenza della Corte di Giustizia (Grande Sezione) del 2 dicembre 2014, in questa rivista

10) Corte di giustizia dell’Unione europea, sent. 25.01.2018

 

 



Morgana Taverriti - (cod. A6818)

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