I diritti umani, la tempesta, e il luogo insicuro di approdo.

Francesco Cherubini
1 agosto 2019


 
In un suo Caos apparso sul settimanale Tempo del 29 marzo 1960, Pier Paolo Pasolini si domandava se ancora esistessero vite romanzesche. Egli costruiva la risposta sulla base di ciò che considerava la radice del romanzo: l’altrove, «un termine di confronto, rispetto a cui anche il quotidiano, lo sperimentato, il noioso di qui acquistava autocoscienza e quindi stupore», tanto da identificare nel viaggio «l’archetipo del romanzesco moderno […]: la conoscenza, vera o ideale, di qualche altrove; oppure il contrario (il negativo) di tutto questo: ossia l’assoluta fiducia nei valori della propria entropia (la Cina dentro la sua muraglia)». Ciò bastava all’illustre autore per negare ad un mondo nel quale gli altrove erano, già allora, in via di estinzione, una continuità romanzesca con il passato: «[l]a entropia industriale comprende ormai, praticamente, l’intera umanità. Non si può più andare “verso l’Orizzonte” come se si trattasse di un’avventura: cioè alla...
 
(…)
 
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